lunedì 25 giugno 2012

Make the difference: ripensare lo sviluppo!


Il G8&G20 Youth Summith 2012 si è concluso da poco più di una settimana. Il final communiqué è stilato ed inizia ad essere diffuso: idee e proposte per nuove politiche innovative e fresche, questo l'obiettivo delle 20 delegazioni.
Anche il committee Development ha fatto la sua parte: ma cosa è stato proposto? Quali sono le soluzioni che ci si propone di raggiungere nel prossimo futuro?
Abbiamo parlato di food security e alternative efficaci agli aiuti umanitari.
Raggiungere la sicurezza alimentare non è certo cosa facile: significa garantire un'alimentazione corretta e di qualità. Ma non solo, si tratta anche di assicurarne l'accesso a tutti. Sono esattamente questi i due pilastri fondamentali: quality e access.
Con l'idea ben presente di non mirare solo ad un incremento della produzione, ma a razionalizzare e migliorare tale produzione, abbiamo deciso di favorire una nuova visione di agricoltura. Un'agricoltura di piccola scale, che favorisca le famiglie e le comunità locali. Attraverso cooperative di produttori cerchiamo di spostare l'asse di potere dalle grandi multinazionali occidentali verso una produzione più sostenibile, sia per l'ambiente, sia per la popolazione locale.
Superando piccoli disaccordi, ci siamo tutti trovati favorevoli all'incentivo di una small-scale agricolture come possibile soluzione.
Qualche problema in più si è invece presentato sul fronte dell'aid effectiveness, ossia come assicurare una buona allocazione degli aiuti che vengono dispensati ai paesi in via di sviluppo. La posizione italiana è ben chiara: rifiuto dell'idea e del concetto di aiuto inteso come semplice trasferimento di fondi. Ciononostante è ovvio che, qualora questi aiuti vengano dati, siano il più efficace possibile. Per questo motivo si è cercato di garantire trasparenza e valutazione degli impatti delle politiche umanitarie. Pur essendo contrario, dunque, ho cercato di fare in modo che nuovi strumenti e azioni vengano implementati. Purtroppo le soluzioni individuate sono state vaghe e poco concrete. Ancora molti interessi si nascondono dietro le politiche umanitarie: il potere, politico ed economico, continua ad esercitato dalle potenze occidentali verso i paesi beneficiari (stranamente coincidenti con i vecchi rapporti coloniali).
I vecchi stati nazionali, con le loro politiche, ormai incontrano forti limitazioni alla propria sovranità a causa del contesto economico e finanziario internazionale. In un mondo interconnesso e interdipendente, il processo di globalizzazione richiede una rigenerata assunzione di responsabilità e un'interazione che conduca ad uno sviluppo umano integrale, senza ridursi alla sola dimensione economica e tecnologica.
Occorre sviluppare rapporti di cooperazione veri, rispettosi, che comprendano la nuova comunità umana sempre più interconnessa con la globalizzazione e la rivoluzione digitale: non si può (più) guardare ad un nostro vantaggio o ad un nostro interesse se non congiuntamente ai vantaggi e interessi dei nostri interlocutori. È necessario un passaggio culturale profondo, che oggi è possibile se si procede con gradualità, nonostante la sua urgenza.
Una strada percorribile è quella di ripartire dalla centralità della persona e riproporre il bene comune come aspirazione globale per dare “a ciascuno il suo” e garantire stabilità, pace e armonia. È questa la visione che sarebbe dovuta scaturire dal lavoro di venti giovani: idee innovative sono venute fuori, certo, ma quello che mi aspettavo era una volontà di cambiamento vera e incondizionata.
Forse è stata l'aria monumentale e istituzionale che circonda gli uffici e i monumenti di Washington che ci ha intimorito; forse il cibo americano, troppo chimico e zuccherato, che ci ha assuefatti. Ciononostante, il Final Communiqué, frutto delle lunghe negoziazioni, pur essendo imperfetto e zoppicante, dev'essere punto di partenza per future prese di coscienza e per un domani davvero migliore.  

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